Facebook e caso Cambridge Analytica: lo storno dei titoli tecnologici
Il fatto che i dati per la loro importanza in campo commerciale rappresentino il nuovo petrolio è un argomento noto già da tempo. Con l’affermazione dei social network, anche grazie alla spinta data dagli smartphone e con la presenza sempre più profonda della rete internet nelle nostre vite, una grandissima quantità di dati, appunto i cosiddetti Big Data, vengono generati ogni giorno, ogni ora e ogni secondo.
Questi dati contengono quantità inimmaginabili di informazioni di importanza fondamentale per una società di stampo capitalista: per le aziende, per chi vende, per chi pianifica la produzione, per chi fa pubblicità, per chi crea le mode, per chi studia il comportamento i gusti e la psicologia del consumatore, per chi vuole sapere cosa pensiamo e cosa vogliamo. Ogni singola pagina visitata su Google, ogni like cliccato su Facebook e in generale ogni comportamento digitale da noi messo in atto lascia una traccia indelebile sul web. Questa traccia viene archiviata, trasformata in statistiche per scopi commerciali e rivenduta. La mole di informazioni archiviata da piattaforme come Facebook, Instagram, Twitter e Google si trasforma così in una nuova commodity che viene comprata a peso d’oro, molto più importante del petrolio oggi.
I Big Data sono il futuro, fin qui niente di nuovo.
Non una sorpresa quindi che i titoli cosiddetti FAANG (Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google) siano arrivati a rappresentare lo scorso anno più del 12% in termini di peso nello Standard & Poor’s 500, indice che contiene le 500 aziende quotate più importanti negli Stati Uniti.
La capitalizzazione di questi 5 titoli è superiore nel totale al PIL annuale di Italia o Regno Unito.
Con dati aggiornati al 2017, negli ultimi 4 anni Facebook ha guadagnato in borsa il 544%, Netflix il 441%, Amazon è salita del 268%, Apple del 170%, Google (Alphabet) del 124%. Cifre esorbitanti se consideriamo che in totale gli indici Nasdaq e S&P 500 hanno guadagnato rispettivamente “solo” l’84% e il 50%.
E’ semplice intuire che il vero core business di Facebook, ad esempio, non è quello di permetterci di condividere foto e di restare in contatto con gli amici grazie ad una piattaforma gratuita, user friendly e con grafica accattivante, ma è semplicemente quello di fare grandi affari vendendo i nostri dati e ricevendo miliardi di dollari dalla pubblicità.
Che cosa è successo nelle ultime settimane ai titoli FAANG?
Tutto è partito a metà marzo quando una notizia ha iniziato a circolare su tutte le prime pagine dei giornali: Facebook coinvolta in uno scandalo per aver lavorato assieme alla società Cambridge Analytica (che ha contribuito a sostegno della campagna elettorale di Donald Trump e per la campagna elettorale a sostegno della Brexit in UK) per l’acquisizione e la vendita di dati relativi a 50 milioni di elettori americani, tramite un test della personalità digitale messo a punto tramite l’app “Thisisyourdigitallife” dal professor Aleksandr Kogan della Cambridge University.
Tramite questo test su Facebook, milioni di utenti sono stati pagati per rispondere ad alcune domande relative alla propria personalità e ai propri comportamenti digitali e hanno dato il consenso al trattamento dei propri dati personali. Dati che poi sono stati, in parte, almeno dalle prime indiscrezioni, utilizzati per predire e influenzare il comportamento alle urne di milioni di elettori americani e che senz’altro hanno contribuito nella costruzione dei discorsi pubblici dell’allora candidato presidente.
Tra le altre cose, il professor Kogan è anche professore all’università di San Pietroburgo e aveva già ricevuto fondi in passato dal governo russo per una ricerca sull’emotività degli utenti Facebook.
Insomma oltre al caos legato all’utilizzo dei dati personali a livello politico, il cosiddetto Datagate, è tornato alla ribalta anche il presunto Russiagate, ovvero il collegamento indiretto tra l’esito dell’elezione di Trump e un aiutino ricevuto da parte dalla Russia.
A seguito di questo scandalo il titolo Facebook ha iniziato a precipitare in borsa, seguito poi anche da tutti gli altri titoli FAANG, principalmente Amazon, Google e Netflix, con cali pesanti anche dell’indice tecnologico mondiale NYSE FANG composto oltre che dalle suddette 5 società anche da Alibaba, Baidu, Tesla, Nvidia e Twitter.
Al brutto momento di mercato si sono unite anche altre notizie preoccupanti: in primis i tweet del presidente Trump intenzionato ad iniziare a tassare pesantemente Amazon sulle vendite online, per contenere l’effetto monopolizzante che questa società super innovativa sta avendo su una grande fetta del mercato mondiale, essendo arrivato addirittura a minacciare il potere di Wallmart, la più importante catena di supermarket americani. Come seconda cosa una serie di incidenti mortali causati da guasti sulle auto Tesla che hanno provocato incendi nelle vetture.
Tutto questo, unito alla paura dello scoppio di una bolla su questi titoli già cresciuti tantissimo (in scia a quanto già accaduto nel 2000 con i titoli tecnologici legati alla bolla internet delle “dot com”) ha peggiorato ancora di più le perdite in borsa di queste società. In poche settimane l’indice FAANG ha perso più di 400 Miliardi di Dollari, contribuendo ad aumentare di molto la volatilità su tutti gli altri indici americani e mondiali già messi a dura prova da tensioni politiche e economiche: dazi Trump, sanzioni alla Cina, Corea del Nord, caso diplomatici russi espulsi, elezioni in Europa, incertezza relativa alla politica monetaria e all’aumento dei tassi in Europa e Usa.
C’è il pericolo di uno scoppio di una bolla che replica la bolla delle Dot Com nel 2000?
Stando a quanto sostengono economisti e gestori, non c’è questo pericolo.
Ciò che è accaduto nel 2000 è stato ben diverso: i titoli tecnologici legati all’avvento di Internet erano cresciuti tantissimo pur trattandosi di società di piccolissime dimensioni e senza nessun tipo di logica economica. Società di servizi internet nascevano ogni giorno e decuplicavano il proprio valore in pochissime ore, solamente per il fatto di avere la parola “internet” o “web” nel proprio nome o nel proprio statuto. Si trattava davvero di un’euforia collettiva sfociata poi nello scoppio disastroso della bolla.
Come abbiamo visto, invece, i titoli FAANG hanno sì avuto delle performance eccezionali, ma legate a degli utili e a dei bilanci altrettanto eccezionali, nonostante il Price/Earnigns (che indica quanto è valutata una società rispetto alla propria capacità di produrre utili) fosse in alcuni casi abbastanza sopravvalutato. Non si tratta comunque di società sconosciute ma di veri e propri leader di mercato, colossi della tecnologia che stanno cambiando le regole del gioco della concorrenza mondiale.
Probabilmente ci saranno altri mesi di forti oscillazioni su questi titoli, con altre giornate negative in borsa, finché non si giungerà ad una legge che disciplinerà cosa si può e cosa non si può fare con i dati personali degli utenti internet. Il reale valore che avranno nei prossimi anni questi titoli (soprattutto Facebook, Twitter e Alphabet-Google) dipenderà anche da quanto le nuove regolamentazioni andranno ad impattare sui loro bilanci.
Ad opinione di molti esperti si sono aperte delle ottime opportunità di acquisto su questi titoli, che se acquistati a sconto in questo momento storico potranno dalle delle belle soddisfazioni detenendoli per il tempo necessario, aspettando che si calmino le acque.
Resta sempre la raccomandazione di affidarsi per la gestione del risparmio e per la pianificazione ad un consulente finanziario esperto e di utilizzare i fondi comuni di investimento (magari fondi che investono su titoli tecnologic), invece di acquistare i singoli titoli azionari. Questo contribuirà a mantenere basso il rischio e la volatilità dell’investimento.
Mattia Cavattoni, consulente finanziario